Era arrivato a Barbaresco nell’immediato dopoguerra, poco più che un ragazzo, raro emblema di intelligenza, bontà e altruismo, una fede cristallina e profonda che si apriva alla sua gente, soprattutto ai giovani: ti coinvolgeva e ti conquistava specialmente con l’amicizia.

Il suo obbiettivo era cercare di fare delle cose buone per gli altri. Novello San Francesco, Don Fiorino si buttò a capo fitto in una miriade di attività, non tralasciando neanche per un attimo l’apostolato.

Soggiogato dal ventennio fascista e da cinque anni di guerra, Barbaresco usciva da un tunnel, riaffacciandosi alla luce dopo anni di difficoltà, provocata da una miseria incastonata in tradizioni antiche, senza intravvedere possibilità di riscatto sociale. Anche il culto rifletteva pienamente questo stato di immobilismo.

Quasi sconnesso dalle infiltrazioni secolari, il pavimento della chiesa aveva assunto un evidente precarietà, l’umidità si trasmetteva ai banchi e soprattutto allo zoccolo dei muri: interamente distrutte le volute in barocco. Tentò timidamente anche una sottoscrizione, ma con esito ben poco felice, il costo si prefigurava molto alto per quei tempi. Mai come in quella circostanza risultò veritiero il luogo comune “qualche santo lo aiutò”. Il parroco prese coraggio dall’ansioso desiderio di rendersi utile, nonché dall’emergenza incombente. E finalmente venne applicato lo zoccolo marmoreo sul pavimento risanato.

C’era l’organo a canne lassù, come in tutte le chiese per altro, estremamente angusto lo spazio e bisognava dare dieci soldi, a volte una lira, ad ogni funzione a chi andava a tirare le corde del mantice, compito che non si poteva affidare a un ragazzo. Per la tecnica del sonoro trovò un esperto che si prestò, più che altro per amicizia. Noi l’aiutavamo, impiegammo mesi lavorando solo la sera, su e giù per quella scala a chiocciola, e tutto fu spostato nel coro. Si sentiva l’attacco automatico della pompa ad aria, ma era stata recuperata da un rottamaio. Nel coro ci stavamo tutti, lui suonava e nacque così la cantoria, fu un grosso passo avanti.

E venne subito l’urgenza dell’asilo, non c’era mai stato nulla a Barbaresco, i bambini si allevavano nelle stalle d’inverno e nel cortile d’estate ed erano tanti allora, bisognava fare qualcosa. C’era un gerbido, semi franato, proprio ai piedi della torre medioevale e Don Marengo lì iniziò a lavorare. Con l’abito talare imbrattato di calce dava le direttive e tutti concorsero, ivi compresi due impresari edili locali; fino ad allora erano stati concorrenti, ma in quella occasione trovarono completa armonia. In pochi mesi, a costi irrisori, come permettevano i tempi, fu costruito l’asilo.

Non erano ancora finiti gli anni quaranta e lui in un paese di origini così rustiche pensò anche ad una filo drammatica: voleva tenere i giovani uniti e facendosi aiutare da un amico studente universitario, Francesco Sobrero, che successivamente divenne onorevole, riuscì a mettere insieme un gruppo di ragazzi e ragazze. Erano meno che ventenni, ma presero la recita così seriamente da considerarla un vero lavoro ed ebbero un certo successo anche nei paesi circostanti: contavano soprattutto la sua presenza, la sua capacità, la sua rettitudine.

La parola “Azione Cattolica”, 50 anni fa, per la gioventù dei paesi, era tutto un mondo di valori a cui attingere. Da noi ruotava completamente attorno al parroco. Specie nei mesi invernali si andava in parrocchia, e c’era sempre qualcosa di nuovo da fare. Eliminando alcune tramezze Don Fiorino era riuscito, nel fabbricato della parrocchia, a ricavare una sala ritrovo piuttosto grande con biliardo e altri giochi che era sempre piena alla sera.

Con l’ingresso negli anni ‘50, tutto quel fervore di attività non gli bastava più. Voleva fare qualcosa di veramente importante per la sua gente. La sua cultura e le sue conoscenze gli facevano capire che era circondato da contadini, non ancora “agricoltori” e tanto meno “viticoltori”, il suo fine ultimo era quindi cercare in essi l’emancipazione.

Oggi possiamo facilmente capire quanta lungimiranza ci fosse in quelle aspirazioni. Cosciente dell’individualismo radicato nella nostra gente, cominciò prudentemente a parlare di associazione riferendosi all’agronomo Domizio Cavazza, mai dimenticato “padre del Barbaresco”. Cavazza aveva fondato una Cantina Sociale nel castello del paese nel 1894 ed aveva in pratica inventato il vino Barbaresco così come lo conosciamo oggi. Quella esperienza poteva essere ripetuta ancora, per il bene della popolazione.

Un valido aiuto per il parroco fu il farmacista di Neive. Il dottor Maffei godeva di un certo carisma nella zona, era proprietario di diversi terreni coltivati a vigneto e cercava una miglior resa per le sue terre. L’imprenditoria del possidente e gli ideali generosi del sacerdote furono un binomio vincente. Altri che portarono un certo contributo, in quei tempi difficili, furono Cravanzola Riccardo e Viglino Lorenzo, che poi diventeranno i due primi presidenti della cooperativa, che con la loro preziosa collaborazione, riuscirono a coinvolgere famiglie della zona dell’Ovello e del Rabajà, in modo che l’organismo assunse subito una realtà topografica convincente. Questo servì a porre un argine alle insidiose argomentazioni di coloro che giudicavano deleteria la nascita di una cantina sociale, i quali, non potendo affrontare direttamente don Marengo, svolgevano una capillare attività di contrasto; non erano certo da condannare, avevano le loro buone ragioni commerciali e di interesse privato, tuttavia era giusto pensare democraticamente anche alle difficoltà di coloro che costituivano la base della produzione dell’uva.

I riferimenti storici e pionieristici delle origini del Barbaresco erano ben diversi: Cavazza possedeva il castello con cantine di una certa ampiezza e adattabilità, Don Marengo nulla di tutto ciò. La parrocchia aveva un anfratto di cantina che usciva nel cortile, gli anziani ricordano ancora adesso di essere andati con picco e badile a squadrare e ampliare quel locale. Alcuni portarono delle botti usate e là sotto avvenne la prima vinificazione in comune. Fu così che, nel 1958, fu fondata grazie all’impulso e sotto la guida di Don Fiorino la Produttori del Barbaresco società agricola cooperativa: si vendettero le prime bottiglie, 500, forse 1000, il resto del vino prodotto fu venduto sfuso nella primavera successiva alla vendemmia per far fronte alle spese più urgenti.

Nel 1960, con un piccolo contributo regionale, si avviò la costruzione della cantina vera e propria. Diciannove erano i fondatori. Solo le uve nebbiolo si conferivano; le altre venivano vendute sul mercato di Alba: un po’ per rispetto verso l’esempio di Cavazza, un po’ per garantirsi un guadagno alternativo nel caso le cose fossero andate male… bisognava sbarcare il lunario! In segno di rispetto a Don Marengo, e grazie ai suoi insegnamenti, quei diciannove tennero un comportamento eccezionale: portavano alla Cantina uve nebbiolo di grande qualità e davano una mano per la vinificazione. Malgrado quella esasperata precarietà, le speranze erano alimentate da una buona coscienza di sé e da un crescente ottimismo.

Ma proprio in quei giorni, per Don Marengo doveva verificarsi una grave disgrazia. Un ragazzo che aiutava i muratori nella costruzione della cantina fu fulminato da un cavo elettrico. C’era un’impresa edile e quindi dei responsabili, ma il senso di colpa gravò tutto su Don Fiorino. Lui aveva voluto la Cantina e per causa sua quel ragazzo era morto. Dovette provvedere per la sepoltura, lui, il parroco “colpevole”. Ripensandoci, ancora adesso, ci viene da rabbrividire a quanto dolore, rimpianto, rimorso provò in quei giorni. Chissà quali parole poté dire o dovette dire a quel funerale.

Un grosso masso era crollato sulla sua sensibilità, la sua dedizione, la sua generosità. Il nostro intervento, al fine di portare qualche sprazzo di conforto, ottenne ben pochi risultati. E poi molto presto arrivò, dalla curia di Alba, l’ordine di trasferimento: Don Marengo veniva mandato via da Barbaresco. Andavamo a trovarlo nella nuova parrocchia una volta all’anno, sotto Natale; conservava in lui l’immagine della sofferenza. Per quanto da noi sollecitato con tutte le promesse di affetto e devozione non venne mai più a Barbaresco.

Ma grazie a lui, alla sua visione ed al suo impegno, quel seme da lui gettato si sviluppò e crebbe straordinariamente bene. Non è del tutto vero quel che a volte si dice, che la “Cantina dei Produttori” seguì le sorti del Barbaresco. Se così fosse stato, sarebbe una cantina come altre in un ambiente privilegiato. Ci sono cantine sociali nel Bordeaux, nella Champagne, nel Chianti e nelle nostre stesse Langhe, ma questa è sin dall’inizio… un’altra cosa.

Chi cercò, caparbiamente, di far crescere la Cantina negli anni ’60 e ’70, si trovò a far convivere da una parte l’interesse economico, dall’altra ideali generosi, che avevano per riferimento la passione e la lungimiranza di Don Fiorino. Ogni successo o traguardo raggiunto era vissuto come un omaggio al fondatore, alla sua sofferenza, alla sua sfortuna. Non si poteva parlare di particolare professionalità e tento meno capacità, tuttavia uno sviluppo così ben coordinato e così unico nel panorama delle cantine cooperative di quegli anni, è stato il frutto dei suoi indirizzi morali.

Alla fine degli anni ’80 cominciarono ad affluire guadagni consistenti, un nome che diventava sempre più prestigioso, un riconosciuto rapporto qualità prezzo, novello messaggio mai riscontrato in precedenza. Nell’ambito delle cantine sociali ci sentivamo i primi della classe, gli associati, ormai oltre la cinquantina, erano diventati finalmente … “viticoltori”, conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo.

Lassù, nell’arena dei beati, Don Fiorino avrà trovato posto vicino alla grande anima di Domizio Cavazza, due persone che hanno dato senza chiedere, senza pretendere, senza ottenere. Competenza e generosità nel primo, dedizione e altruismo nel secondo. Due persone in un secolo e non erano neanche di Barbaresco: emiliano l’uno e di Rodello l’altro: se non ci fosse stato il primo, il Barbaresco avrebbe impiegato chissà quanti decenni in più per affrancarsi dal ruolo di “fratello minore”. Senza il secondo, il riscatto contadino sarebbe avvenuto molto più tardi e molte piccole proprietà sarebbero sparite, vendute per necessità invece che coltivate con amore.

Tutti i grandi vini, oltre alle loro qualità intrinseche, posseggono una storia che a volte sfuma fino alla leggenda. Questa storia, oltre a renderli famosi nel mondo, li appropria di un fascino che suscita le passioni e conquista le genti. Così i toscani risalgono le loro origini enoiche agli etruschi in combutta con i fenici, il Bordeaux deve molto alla potenza espansiva di navigazione della flotta inglese, la Champagne punta su un monaco ed una serie di donne avventuriere, il Barolo fruisce delle astuzie di Cavour e delle intemperanze del re “Padre della patria”. Più recente, se pur altrettanto famoso, il Barbaresco poggia su questi due uomini, sia pure diversi per grandezza e forma.

Certo furono anche altri a far crescere il Barbaresco nella seconda metà del secolo scorso: ma questa fu imprenditoria, ammirevole, intelligente, supportata spesso da lungimiranza e professionalità, ma sempre al servizio dell’interesse aziendale. Qui noi vogliamo commemorare altri valori, morali ed etici: quelli che, forse inconsapevolmente, ci siamo portati addosso per la vita nel ricordo di un giovane parroco che ha quasi da solo affrancato un paese dalla sua povertà economica e culturale.

 
 

Don Fiorino
Marengo
(1922-1995),
fondatore

Un ricordo di Don Fiorino scritto
nel 2015 da Celestino Vacca,
che collaborò con Don Fiorino
a fondare la Produttori del
Barbaresco e ne fu direttore
dal 1958 al 1984.

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